Intervista a Vindice Rabitti
Contenuto
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Titolo
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Intervista a Vindice Rabitti
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File
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Audio dell'intervista, parte 1 (Monte Pelato)
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Audio dell'intervista, parte 2 (CNT/FAI, Plaza de Angel)
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Audio dell'intervista, parte 3 (Plaza de Angel, Plaza Urkianona)
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Audio dell'intervista, parte 4 (Hotel Continental, Pedralbes)
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Audio dell'intervista, parte 5 (con Perdalber, Miguel Pallares e V. Consiglio)
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Audio dell'intervista, parte 6 (Fascismo)
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Audio dell'intervista, parte 7 (Fascismo, Raimondi)
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Audio dell'intervista, parte 8 (Huesca, Sans)
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Audio dell'intervista, parte 9
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Audio dell'intervista, parte 10
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Descrizione
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Registrazione dell'intervista di Claudio Venza e Tobia Imperato a Vindice Rabitti condotta nell'autunno del 1982 tra l’Aragona e Barcellona (Spagna). Tra gli argomenti trattati: fascismo e antifascismo, il movimento anarchico italiano, la Guerra Civile Spagnola e luoghi strettamente legati ad essa. Di seguito alcuni dettagli non esaustivi sulle singole parti dell'intervista.
Parte 1: Battaglia di Monte Pelato (Spagna), durata 63 minuti.
Parte 2: Nella prima parte della registrazione si parla di CNT/FAI e nella seconda parte di Plaza del Angel, durata 63 minuti.
Parte 3: Nella prima parte l'argomento è Plaza del Angel (continua da parte 2), nella seconda parte Plaza Urkianona, durata 63 minuti.
Parte 4: Nella prima parte l'argomento è l'Hotel Continental e i fatti della Central Telefonica, nella seconda parte Pedralbes e calle Buoenanova.
Parte 5: Intervista congiunta a Perdalber, Miguel Pallares e V. Consiglio, durata 64 minuti.
Parte 6: Il fascismo, durata 61 minuti.
Parte 7: Nella prima parte l'argomento è il fascismo, nella seconda parte Raimondi, durata 63 minuti.
Parte 8: Nella prima parte l'argomento è Huesca, nella seconda parte è Sans, durata 63 minuti.
Parte 9: Vari argomenti, durata 63 minuti.
Parte 10: Vari argomenti, durata 57 minuti.
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Durata
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559 minuti
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Partecipanti
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Rabitti, Vindice
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Soggetto produttore
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Imperato, Tobia
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Venza, Claudio
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Data
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1982
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Luogo
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Aragona, Spagna
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Barcellona, Spagna
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Provenienza
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Fondo Claudio Venza - serie Fonti orali - Interviste
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Tipo di contenuto
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Audio
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Lingua
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Italiano
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Spagnolo
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Trascrizione (estratti)
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Trascrizione dattiloscritta dell'intervista a Vindice Rabitti
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V: Vindice Rabitti – T: Tobia Imperato – C: Claudio Venza
Figlio di anarchici
V – [Quando divenni anarchico] ero ancora un ragazzo. Mio padre era stato anarchico – dico “era stato” perché morì che io avevo sette anni – e anche mia madre era stata incarcerata, durante un’agitazione a Bologna. Ma ho solo ricordi vaghi, per sentito dire. Il mio babbo, così mi hanno detto, si firmava “Iconoclasta”, ma aveva anche altri pseudonimi, e prendeva spesso la parola in comizi e riunioni. So che ha scritto diversi articoli, e c’è anche un manifesto riprodotto firmato da mio padre, Teodorico Rabitti. Poi so che è stato arrestato, che è stato mandato al domicilio coatto nel 1898 con altri anarchici per via delle leggi di Crispi, e infatti c’è il suo nome nell’elenco [dei deportati] pubblicato su I Morti [Gli anarchici del 1899, I Morti, RL, Pistoia, 1974].
Lotta antifascista
V – Sono andato via due volte dall’Italia, una volta perché avevo subìto due processi come “ardito del popolo”. Avevamo fatto anche lo sciopero della fame, e durante il secondo sciopero della fame – nel 1921 o nel 1922 – mi scarcerarono perché non avevo ancora compiuto i ventuno anni [allora la maggiore età] e perché eravamo solo ai primordi del fascismo. Dopo essere stato scarcerato, i fascisti mi spararono una volta tornato a casa e mi buttarono una bomba in casa. A questo punto decisi di scappare [e mi aggregai] a una spedizione di operai che doveva andare a lavorare in Belgio. Ma poi io abbandonai la spedizione e mi fermai a Parigi.
Comunque, ero stato processato ed ero stato… non prosciolto ma messo in libertà provvisoria, non avendo ancora la maggiore età. Avevano fatto una specie di distinzione – eravamo in dieci o dodici – e così fummo scarcerati; però essendo stati in galera… te lo puoi immaginare, i giornali avevano parlato di noi, del nostro sciopero della fame. E poi mi conoscevano bene, perché io avevo costituito a Bologna il gruppo Pietro Gori. Quando ero già all’estero, persino a mia mamma avevano messo il pugnale alla gola… poi mi è stato detto – non solo da lei – che terrorizzavano anche le mie sorelle, perché volevano sapere esattamente dove mi trovavo.
Difatti, a Bologna, tutta quella situazione creata dai fascisti era iniziata prima che in tante altre parti d’Italia. Così [una volta uscito di galera] i fascisti mi aggredirono: erano una ventina. Io ero armato. Loro si avvicinarono e – sai io li vidi arrivare e stavo pronto – mi dissero: “Devi venire alla Casa del Fascio. Devi parlare…”. Non so, stavano per dire “col federale”, ma chi si ricorda più chi era o chi non era, e io risposi: “Io non vengo”. E feci un passo indietro e loro tirarono fuori le rivoltelle, ma io fui più svelto, sparai e presi [un certo] Capizzi Clemente. Non è morto ma… insomma, si dice che abbia girato zoppo per alcuni anni. Comunque una gran sparatoria, dappertutto… erano una ventina… E poi io tagliai la corda, mi misi a correre, ma andai a sbattere – con la rivoltella in pugno… – contro delle guardie regie che erano sotto il portico, due guardie regie… La rivoltella non poteva sparare più, ma io la tenevo bene in vista e correvo, così queste guardie regie… mi lasciarono passare in mezzo, caro mio!
Alla fine prendemmo delle condanne relativamente basse: 15 mesi, 18 mesi, una cosa così… insomma, in stralcio di processo fui arrestato e scontai la reclusione a Castelfranco Emilia. Ho scontato 18 mesi. Nel frattempo ci fu un’amnistia per delitti e reati di sangue, fatta per amnistiare i fascisti. Ma grazie agli avvocati ne godemmo anche noi. Insomma, ci diminuirono la pena di qualche mese, di pochi mesi. A ogni modo, scontata la condanna, anche fuori la vita era diventata impossibile. E infine riuscii a partire.
Ma prima, a Bologna, i fascisti mi presero e mi portarono alla caserma Mussolini. Lì mi diedero un fracco di botte e poi mi chiusero in uno sgabuzzino buio, dal quale sentivo un altro che urlava. Mi venne addirittura la febbre dalle botte che mi avevamo dato, e la mattina dopo mi vennero a cercare… no, mica la mattina dopo… non so, forse un giorno dopo, due giorni dopo, chi si ricorda… Mi ricordo però questo stanzino buio e quanto stavo male: le botte son botte, specialmente sulla testa. A un certo punto venne Arpinati [Leandro Arpinati, esponente di primo piano del fascismo bolognese e nazionale] e mi disse: “Fa’ il saluto fascista, così ti mando fuori”. E io “Mò, io non faccio nessun saluto, né fascista, né nessuno… lasciatemi in pace!”. Arpinati comunque mi fece uscire da lì, dalla caserma Mussolini.
[Un’altra] aggressione [la] subii nel Viale di Circonvallazione. Insomma, da una certa distanza mi spararono, e fui trasportato anche questa volta all’ospedale. Lì mi estrassero la pallottola: era entrata tra due costole, ma non in profondità perché era stata sparata da una certa distanza. Fu un vero e proprio agguato. Ho ancora il segno, un piccolo segno.
[Successivamente] fui ancora aggredito in un posto frequentato dagli anarchici, in via… non ricordo. Comunque, lì vennero i fascisti e cercarono di entrare, ma noi lo impedimmo, e però alla fine… mi ruppero la testa e mi portarono di nuovo all’ospedale. Insomma, ci andai tre volte.
Esilio a Parigi
V – [Insieme a Camillo] Berneri [Lodi, 1897 - Barcellona, 1937] io facevo il verniciatore. In un certo periodo Berneri ha lavorato con me a rifare facciate per un imprenditore che stava a Porte de Bagnolet. Era un palazzo immenso, uno dei primi palazzi grandi, erano alto sei o sette piani, e noi facevamo le finestre. Anche Berneri doveva lavorare. Riceveva qualche soldo dalla “Adunata dei Refrattari” per gli articoli che scriveva, ma non era abbastanza. Devi capire che tutti gli anarchici [in esilio] a Parigi non ricevevano sovvenzioni da nessuno. Non era come per tutti gli altri iscritti ai partiti, parlo dei socialisti, dei repubblicani e anche dei comunisti… il Partito comunista aveva mezzi, come del resto la Concentrazione [Concentrazione d’Azione Antifascista, attiva dal 1927 al 1934], che aveva dietro la massoneria, l’America…
Berneri veniva a lavorare con noi perché avevamo il lavoro a contratto, ma non veniva sempre, aveva i suoi impegni e le sue cose. A ogni modo, noi lavoravamo a giornata, e ti dirò che per riscuotere i soldi fummo costretti ad andare dall’imprenditore, io e Otello Pezzoli [Bologna, 1894 - ?], uno con la rivoltella e l’altro con il coltello in tasca. Erano due giorni che non mangiavamo e lui ci doveva dare dei soldi ma non ci pagava. Ci disse: “Non ce li ho, ve li darò domani”. Da domani a domani l’altro… allora un bel giorno ci siamo detti: “Qui bisogna farla finita”. Così gli telefonammo: “È in casa?”, l’altro rispose: “Sì, sì, venite”. Lui credeva che come sempre avremmo fatto le solite chiacchiere… Andammo lì, nel suo ufficio a pianterreno, dove aveva la cassaforte, e gli dicemmo: “Siamo umani e siamo buoni, però di fronte alla fame, di fronte a un diritto… noi abbiamo lavorato, abbiamo il diritto di essere pagati. Il lavoro è stato accettato, l’opera compiuta è andata bene…”. “Ma io sono senza soldi” ci rispose. Allora ci avvicinammo a lui – c’era anche suo figlio in casa – e non so se tremavano di più di là o di qua. Insomma, se la facevano addosso… poveretti anche loro. A un dato momento ho pensato che cadesse per terra lì davanti a noi. Infine disse: “Bene, vi farò un assegno postdatato”. “Accettiamo anche questo, però guardate che se noi veniamo arrestati e voi dite che ve l’abbiamo estorto, mentre sapete che ve l’abbiamo sì preteso ma per un diritto, ci saranno degli altri che penseranno loro a sistemarvi. Non per niente siamo venuti all’estero: è perché siamo dei combattenti”. Due parole così, non per fare un romanzo, non si trattava mica di cantar delle glorie, ma per fargli sapere che non eravamo soli. Le stesse cose che altri compagni han fatto con altri imprenditori.
Ricordo bene anche un’altra volta in cui erano due giorni che non mangiavo… Sembra una sciocchezza, però bisogna dire che la solidarietà tra gli anarchici era una cosa grandiosa: se uno aveva un pezzo di pane, lo spezzava in due, non dico tutti ma era qualcosa di sentito. La solidarietà come l’hanno esercitata gli anarchici nella fame, nella miseria, nelle privazioni, spezzando un pezzo di pane (parlo in generale), io non l’ho mai visto fare da nessun altro.
In quel periodo lì ci sono stati altri episodi… adesso che possa precisare date e fatti… sai com’è, c’è stata un’infinità di progetti, di cose, tutta la mia attività con gli altri compagni… e poi ho picchiato diversi fascisti, anche in pieno giorno, alla Gare du Nord. Una volta, a uno, gli ho dato una botta col calcio della rivoltella: erano venuti dei fascisti, ma eravamo stati avvisati e i compagni allora li avevano individuati. Io li affrontai, diedi una botta a uno col calcio della rivoltella… e partì un colpo che mi sfiorò qui [indica la tempia]. La gente scappava da tutte le parti, e poi anche io e gli altri due compagni che mi facevano da spalla, perché ero io ad avere la rivoltella, riuscimmo a scappare. Per quanto sia emozionante, non si possono rivivere d’un botto tutti gli istanti, i ricordi di tutti i compagni, le lotte, le battaglie, i sacrifici.
Barcellona rivoluzionaria
T – Quando siete arrivati a Barcellona la prima volta, siete passati da qui? [la sede del Comité Regional de la CNT-FAI, Vía Layetana 4]
V – Sì, siamo arrivati qui. Anzi Berneri e [Celso] Persici [Crespellano (BO), 1896 - Nizza, 1988] hanno persino parlato dal balcone. Anzi, non è un vero balcone, ma lo vedete: hanno scavalcato la finestra e hanno parlato da lì. Noi eravamo appena arrivati dalla Francia.
C’erano ancora le barricate, en la Rambla, en todos sitios, c’erano compagni armati, con todos los armamentos, e dappertutto c’era scritto: “CNT-FAI”, sui tram, sugli autobus… improvvisamente muchos compañeros avevano verniciato la scritta ovunque. E questo dava già un carattere… sembra una sciocchezza, ma di fatto creava quella atmosfera e si identificava con lo slancio del popolo, con l’aspirazione del popolo che si era buttato spontaneamente a la calle, nelle strade, per impedire il trionfo dei generali faziosi e fascisti. C’erano ancora le barricate tutt’intorno, era il mese di luglio [del 1936], si sentivano ancora gli spari… È qui che si è decisa la costituzione della Colonna italiana, cioè della Colonna Ascaso.
Monte Pelato
[“Monte Pelato” è la denominazione data dai volontari italiani a un’altura situata a metà strada tra Huesca e Almudévar, in Aragona, in cui si erano trincerati. Entrambe le città erano in mano alle truppe franchiste. Qui ci fu, il 28 agosto 1936, la prima battaglia degli antifascisti italiani, che si concluse a loro favore].
C – Adesso dove siamo? Siamo esattamente nella postazione che avevi tu? Eri qui con la mitragliatrice?
V – Credo di sì. Sono quasi sicuro, da certi segni, da quella specie di piazzola. Avevano messo delle pietre, fatto degli scavi: erano stati dei minatori della Valdarno. Noi da qua avevamo preso varie volte d’infilata un’autoblinda [franchista] che non era riuscita ad andare oltre un muretto che avevamo costruito noi, un muretto di traverso alla strada fatto con sassi che avevamo recuperato. All’autoblinda noi sparavamo con la mitraglia dentro le feritoie e a un dato momento non rispose più ai colpi, cioè non sparavano più dalle feritoie. E allora noi lanciammo alcune bombe [di fabbricazione] FAI. A lanciarle fui io e… non ricordo bene se Bruno Gualandi [Bologna, 1905 - Huesca, 1936] o [Libero] Mariotti [Pietrasanta, 1911 - Roma, 1985], ma queste bombe non esplosero. Intanto le mitraglie bruciavano: prima abbiamo versato l’acqua delle borracce e poi abbiamo orinato sopra a turno per raffreddarle, come ci aveva detto di fare chi conosceva la mitraglia.
Tra le altre cose bisogna dire che a Monte Pelato […] eravamo in 110, siamo partiti in 140 (per altri eravamo in 150, comunque dieci più dieci meno…), però accertati, partecipanti alla battaglia, eravamo in 110. Tra questi c’era Berneri, c’era [Michele] Centrone [Castellana (BA), 1879 - Monte Pelato, 1936] che poi è caduto, e naturalmente c’era [Mario] Angeloni [Perugia, 1896 - Monte Pelato, 1936], e tanti altri compagni di cui son note le cose.
Con Angeloni c’era una fratellanza, una tale amicizia… era un uomo eccezionale e noi l’amavamo. Sembra puerile dire certe cose… ma lui si era talmente immedesimato con noi – era quello che comandava le mitraglie – che era in un certo qual modo il nostro comandante, ma in fratellanza…
C – Come è avvenuta la morte di Angeloni?
V – Era lì [indica un punto]. Non era sul trincerone ma fra il terreno che dal trincerone veniva verso le nostre posizioni. Ci stava dicendo: “Aspettate. Vi porto…”, non ho sentito nient’altro, anche perché c’era fracasso, e poi purtroppo è morto.
L’attacco verso Huesca
Appena arrivammo alla casa cantoniera ci fu subito una scarica perché i fascisti erano appostati lì. Oltre la casa cantoniera c’era una fila di trinceramenti perpendicolari ed è da lì che arrivavano queste scariche, infatti un compagno fu subito colpito. Occupammo la casa cantoniera, e mentre noi si sparava appiattiti per terra e mettendo dei sassi, cercando di trincerarci, [continuavano ad arrivare] queste raffiche che non capivamo da che parte venissero… sentivamo solo sibilare le pallottole. C’era un fuoco d’inferno che proveniva dalle fortificazioni fasciste laterali: i compagni nella casa cantoniera cominciarono a fare dei buchi nel muro, demolendo delle pareti al primo piano e aprendo due buchi in cui furono poste delle mitraglie.
Dunque qui, diciamo così… adesso non trovo neanche le parole adatte per dire lo spirito che ci animava, questo sprezzo – diciamolo pure – del pericolo, e l’amore che esisteva tra di noi, tra tanti compagni ignoti, che non si erano mai conosciuti prima. Sentivamo tutti qualcosa… e dopo la storia ci ha insegnato che era logico che noi valorizzassimo quei compagni anarchici, soprattutto della CNT-FAI, che avevano saputo senza imposizioni, senza disciplina, senza minacce nei confronti di nessuno, de ninguno, organizzarsi. Anche dal punto di vista dello scontro in battaglia non eravamo gli ultimi, e di fatto ci siamo fatti valere, dimostrando oltretutto che gli anarchici erano capaci di organizzare anche la vita.
Lì ci morì un compagno – adesso mi scappa il nome, noi lo conoscevamo come Gomez [Giovanni Barberis, Biella, 1896 - Lérida, 1936] – che conduceva le autoblinde. Sì, è un altro episodio della battaglia, mica della stessa battaglia, di battaglie successive. Perché si è giustamente parlato di Monte Pelato, ma c’è stato anche l’attacco alla casa cantoniera, c’è stata la conquista della trincea a lato, c’è stata la conquista del cimitero, poi di altri posti. La conquista del cimitero è stata successiva alla conquista, con morti, della casa cantoniera, e poi ci sono stati altri attacchi dei fascisti, la conquista delle trincee a lato della carretera, oltre lo stagno. Ma tutti questi episodi non sono avvenuti lo stesso giorno, non sono avvenuti durante lo stesso attacco, sono state fasi successive; quella è stata una battaglia fatta di tappe successive. A destra della carretera, oltre la casa cantoniera, fu colpita a morte anche una compagna spagnola. La battaglia durò tutta la notte e tutto il giorno. Dopo la presa della casa cantoniera, sempre nel mese di settembre, per qualche giorno ci furono diversi attacchi, anche verso Huesca. Sì, è stata tutta una successione, una concatenazione di avvenimenti
E i comunisti invece dicevano che noi dormivamo, ma quando andarono loro “fracassarono” [spagnolismo per fallirono] completamente. Nonostante le loro forze militarizzate e disciplinate… ed erano molto più numerosi di noi, come formazione, e messi meglio con l’armamento e i rifornimenti. Eppure fracassarono completamente, tant’è vero che poi abbandonarono quelle zone lì.
Giornate di maggio
C – Qui [plaça d’Urquinaona] c’era la sede del gruppo Malatesta. Gli italiani avevano organizzato due gruppi.
V – Sì, due gruppi a Barcellona. Il gruppo Malatesta stava in plaça d’Urquinaona, da noi ribattezzata plaça Ferrer. Lì, salendo le scale, il gruppo aveva un alquiler [un appartamento]. I comunisti [nel maggio 1937] ci assaltarono: entrarono nel palazzo, salirono le scale e poi – fuori dalla porta c’era la scritta: “Grupo Anarquista Italiano Malatesta” – batterono contro l’uscio, minacciando di farlo saltare se non avessimo aperto. Va prima detto che plaça d’Urquinaona sta proprio dietro la Telefónica [la centrale telefonica controllata dalla CNT], e dalla sede del gruppo Malatesta, da quelle finestre, vedevamo la Telefónica. E infatti avevamo visto persone che scappavano… avevamo visto sparare… Tornando al dunque, questi sono saliti e allora noi dalle finestre, da altre finestre, e dalla porta stessa li minacciavamo dicendo che se insistevano – avevano le armi ed erano in diversi, in 10 o 12 – li avremmo affrontati rivoltelle alla mano.
In quel momento, anche noi non sapevamo bene com’era la situazione. Ma era una situazione complicata perché qui magari c’erano gli anarchici e la CNT, 50 metri più in là c’erano gli altri. In città non c’era una linea del fronte. Insomma, era una pessima situazione, anche perché la CNT non dava… [indicazioni precise]. Noi eravamo ancora in comunicazione con la CNT-FAI, perché la prima notte dell’attacco la centrale telefonica funzionava ancora, era ancora in mano nostra. Quella notte la CNT-FAI ci chiese se Berneri era con noi e noi rispondemmo: “Berneri? Non sappiamo dov’è”. A quel punto finalmente la CNT-FAI disse: “Ognuno vada nelle proprie sedi (anche la Sezione Italiana), vada nelle proprie sedi per difenderle”. Dunque non per avviare un’azione, ma per difendere le sedi.
Nella sede del gruppo Malatesta eravamo in 10 o 12; altro dettaglio: in faccia a noi, all’angolo di vía Layetana, al primo piano c’era una grande terrazza; lungo tutta la terrazza c’era la scritta: “Juventudes Libertarias”, un grande striscione con la scritta bianca su fondo rosso e nero che copriva tutta la terrazza. Il giorno dopo, o forse due giorni dopo, la sede fu invasa da quelli del PSUC [Partido Socialista Unificado de Cataluña, filostalinista] e [venne esposta] un’[altra] sigla: quella dei piccoli industriali e commercianti… al momento non mi viene il nome [GEPCI - Federación Catalana de Gremios y Entitades de Pequeños Comerciantes y Industriales]. Andarono su, buttarono giù le carte, e persino le suppellettili, le sedie, pezzi di tavoli… si vedeva una ferocia, una rabbia di distruzione… Poi sostituirono anche lo striscione.
T – I comunisti, successivamente, accusarono gli anarchici di aver creato disordini a Barcellona. Invece, come dici tu, voi in realtà vi siete difesi.
V – Ma era la CNT… noi eravamo disposti ad attaccare, e invece la CNT diceva: “Renunciar a todo fuorché alla lucha [contro il fascismo]”. Perché erano convinti, in buona fede, che una volta sconfitti i fascisti “è certo che saremo noi ad avere il sopravvento sui comunisti”. E non con la violenza, ma con l’adesione del popolo, perché c’era un’anima libertaria a Barcellona.
Noi invece eravamo disposti a tutto… tant’è vero che si sono presi contatti con gli “Amici di Durruti” [Los Amigos de Durruti, gruppo anarchico specifico]e con altri compagni catalani e barcellonesi che avevano partecipato alle barricate. E però l’assalto è stato fatto dagli altri.
T – Com’era il vostro stato d’animo?
V – Ma… la mattina dopo le strade erano tutte pattugliate e si vedeva che la gente era terrorizzata, andava rasente le case. Però, a un dato momento, ecco che qualcuno sta vendendo per strada la “Soli” [“Solidaridad Obrera”, la maggiore testata anarchica spagnola]. Vedi le situazioni… un attimo prima c’era chi buttava via il carnet e un attimo dopo dei compagni spagnoli, o meglio catalani, erano in strada a gridare: “¡La Soli! ¡La Soli!”. Sai, sono cose che a viverle… sono cose grandi…
Andando via di lì, siamo andati alla sede della CNT-FAI. Devi sapere che nella notte, o al mattino successivo, non ricordo bene, un camion dell’Abastos [servizio di rifornimento alimentare della CNT-FAI], che aveva la bandiera rosso e nera attaccata sul cofano, vicino al conducente, era stato mitragliato dalla jefatura, la prefettura, in cui erano confluiti gli stalinisti. Robe che se non si vivono… l’inaudita ferocia, le falsità di quella gente lì… uno non ci crede, non ci può credere. Ma fortunatamente ci sono stati molti, anche scrittori famosi, che hanno documentato questi fatti, provando che erano realmente accaduti.
Anche in quel caso, i compagni anarchici che sono stati mitragliati non è che andavano all’attacco, erano del servizio di rifornimento alimentare, portavano il pane. E comunque sì, c’era proprio un’organizzazione meravigliosa… I critici possono dire quello che vogliono, ma qui due giorni dopo [lo scoppio della rivoluzione] tutto funzionava… senza disciplina. C’era solo la disciplina di cui la coscienza degli individui, educati dalla CNT-FAI, sentiva il bisogno. E anche durante tutti quegli avvenimenti c’era questa formidabile volontà e questa organizzazione spontanea. Después, fu quello che fu…
Io ero in servizio presso la CNT-FAI, quella Regional (ho ancora i documenti). Eravamo di stanza lì perché c’era un deposito, e alla Ronda de Sant Pere c’era un appartamento. Ma anche là purtroppo ci fu un attacco delle guardie d’assalto durante la notte. Successivamente sono andato al cuartel Spartaco, dove c’era [Pio] Turroni [Cesena, 1906-1982], che era una specie di comandante. Anche lì c’è stato un conflitto, e hanno ammazzato un altro compagno.
Assassinio di Berneri
T – Qui siamo dove abitava Berneri [plaça de l’Àngel]?
V – Sì, perché, da quanto mi ricordo, dalle finestre di Berneri si vedeva la FAI [vía Layetana 4] e dalla FAI si vedevano le finestre di Berneri; fra la sede della FAI e l’appartamento di Berneri c’era questa piazzetta. Di fronte c’era anche una sezione del PSUC, da dove sono arrivati quelli che prima sono entrati e hanno perquisito i locali, e poi sono tornati e hanno sequestrato Berneri e [Francesco] Barbieri [Briatico (VV), 1895 - Barcellona, 1937]. In sostanza sono stati loro… poi Berneri l’abbiamo trovato in plaça de Catalunya.
Alla camera mortuaria ci siamo ritrovati in due o trecento. Io non me la sentii di entrare. Feci per entrare, ma c’era un odore nauseabondo, e ognuno ha la sua sensibilità… Lì c’era Camillo, e c’erano tanti altri compagni. Tomaso Serra [Lanusei (NU), 1900 - Barrali (SU), 1985] invece mi ha detto che lui è entrato, e che è stato lui ad aver riconosciuto in uno dei corpi quello di Berneri.
La Retirada
[Dalla Spagna] venni via nel 1938. Dopo la militarizzazione, fui messo a disposizione della CNT, del servizio regionale della CNT-FAI, cioè non partii subito e stetti lì coadiuvando in varie cose. Nel 1938, visto il peggiorare della situazione, visto che gli “Internazionali” se ne dovevano andare, decisi di partire. Fatto sta che per partire era necessario avere un passaporto, che noi non avevamo; allora fummo riconosciuti, tramite la Lega dei Diritti dell’Uomo, dalla Angeloni [Maria Giaele Franchini, Cesena, 1898-1991] – sì, era la compagna di Mario – e provvisti (ce l’ho ancora a casa) di un permesso por los estranjeros sin nacionalidad, cioè venivamo considerati apolidi. Dato che in Italia o in altre nazioni c’era la dittatura, c’era il fascismo, avevamo il diritto di ottenere questo passaporto, però la cosa doveva essere verificata. Intorno al 7 o 8 aprile del 1938 ebbi infine questo passaporto, ma il fatto è che non volevo rientrare in Francia, da dove ero già stato espulso. E lo stesso valeva per [Dante] Armanetti [Pontremoli, 1887 - Torino, 1958], [Settimo] Guerrieri [Piombino, 1875-1975] e altri…
Passammo allora la frontiera a Port Bou, d’accordo con i compagni spagnoli, e poi cercammo di… insomma ci indicarono la strada per attraversare le montagne. Difatti le passammo, e dopo esserci tutti messi a posto, lavandoci in un corso d’acqua e lucidandoci le scarpe, andammo alla stazione. Una stazione che non è proprio alla frontiera, è più in là, perché avevamo percorso un bel po’ di strada. Alla stazione, mentre aspettavamo il treno, quando stava proprio per arrivare, ci fu qualcuno che andò ad avvisare la polizia: ci denunciarono e ci fecero arrestare. Tempo dopo, io ottenni una specie di diritto d’asilo… e tre mesi d’isolamento che però mi condonarono. Insomma, a Parigi i compagni si davano da fare per noi presso la Lega dei Diritti dell’Uomo, e così, a un dato momento, mi concessero il diritto d’asilo. Non il diritto d’asilo vero e proprio, ma una sorta di permesso per restare in Francia, dopo però dovevo trovar lavoro. Prima di liberarci verificarono la nostra posizione alla centrale della polizia francese, poi io fui mandato a Salus de Lyon, dove c’era un imprenditore che chiedeva mano d’opera e sono stato lì fino a che non è scoppiata la guerra con l’Italia.
Quando è scoppiata la guerra, cominciarono a chiudere tante attività. A Parigi, la Lega dei Diritti dell’Uomo si era interessata per revocare l’espulsione e farmi avere la carta d’identità, ma io, decidendo di partire di mia volontà, persi quel diritto e il decreto di espulsione venne ripristinato.
Il rientro in Italia
Avevo il biglietto per andare fino a Bologna ma quando fui alla frontiera con l’Italia alcuni poliziotti irruppero nel posto dove ero seduto (si vede che l’avevano saputo… anzi, senz’altro) e mi dissero: “Bisogna che scenda e che faccia il biglietto fino a Bologna”. Io dico: “No guardi, se è per questo, io il biglietto fino a Bologna l’ho già”. E quelli “Lei ha capito”. E io: “Sì, ho capito”.
In sostanza fui trasferito nel carcere di Susa. Sono stato interrogato, e dopo fui condannato al confino, dove sono rimasto per circa due anni. A Ventotene.
[Rientrato a Bologna dopo il confino] non avevo libertà d’azione, la polizia mi controllava continuamente. Ho ritrovato qualche amico dell’epoca, ma non per fare chissà che cosa… contatti così, d’amicizia, ci si sfogava a tu per tu, ma niente riunioni, intendiamoci!
Poi è venuta la “liberazione”, cioè… Badoglio. Ricordo che ero per strada, ma non ne ero al corrente, però sentivo la gente gridare mentre andavo a lavorare in bicicletta: “è caduto Mussolini!”. Ma poco dopo l’8 settembre i fascisti ricominciarono a gironzolare. Allora ero andato a Imola in bicicletta e avevo preso contatto con i partigiani, con [Cesare] Fuochi [Imola (BO), 1917-2003] e con Primo Bassi [Castel Bolognese (BO),1892 - Imola, 1972], e poi andai lassù in montagna. Avevo così ripreso l’attività politica, e anche clandestina, perché sai com’è, erano state espresse diverse minacce nei miei confronti e io non mi fidavo.
[trascrizione a cura di Tobia Imperato]